Serie TV

La distopia nelle serie TV: siamo sicuri che sia peggio della realtà?

Quanto c'è di reale nella distopia nelle serie TV? Di cosa dovremmo avere più paura? Una riflessione sulla base delle serie TV più recenti.

Sicuramente uno dei generi più usati in ambito televisivo, e anche cinematografico, è la distopia. La distopia può avere diverse forme, contesti sociali e storici. Una serie TV distopica può tanto essere ambientata nel nostro mondo quanto in uno immaginario, può prendere forma nello spazio così come in una cittadina degli Stati Uniti, può avere un’accezione più futuristica così come può dare una nuova elaborazione del passato, come se stessimo parlando di un “cosa sarebbe successo se…”. Anche se, in quest’ultimo caso, è facile scivolare nell’ucronia.

Da qualsiasi punto vogliamo guardarla, però, la distopia ha un aspetto terrificante che unisce qualsiasi esempio: non è troppo lontana dalla realtà.

Disagio e narrazione distopica

Un potenziale mondo distopico futurista

Vi sarete sicuramente resi conto come, in alcuni casi, alcune serie TV di stampo dispotico riescano a mettere così tanto a disagio. In ciò che state guardando, per quanto consapevoli della finzione, della messa in scena, si riescono a cogliere riferimenti, messaggi, simboli che ritroviamo nel mondo del reale, nel nostro presente o in una sorta di presagio dal futuro e questo mette fortemente a disagio. O, peggio, in alcuni (spero rari) casi c’è chi addirittura potrebbe dire: “Eh, così sarebbe molto meglio!”.

Nella maggior parte delle situazioni, invece, c’è più quel brivido di gelo dietro la schiena che porta a pensare: “Cielo, potrebbe davvero andare così?”. E, per un attimo, anche la miglior serie TV del mondo diventa una visione indigesta, uno spettacolo che fa paura. Ecco, paura è la parola chiave. Così come l’utopia si pone da modello auspicabile per un mondo molto differente, tendendo ad ampliare quelli che sono gli aspetti positivi della realtà; la distopia, al contrario, ne esalta gli aspetti negativi e si basa, principalmente, su un mondo possibile. Del resto, pensando ad uno dei casi più eclatanti della letteratura e serialità distopica, The Handmaid’s Tale, la stessa Margaret Atwood ha più volte detto di non aver mai inserito nella storia nessuna atrocità che l’uomo, in qualche parte del mondo, in fondo non ha già commesso.

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Recentemente mi è capitato di imbattermi in un horror low budget (dall’incipit e intenti interessanti ma mal riuscito nella resa), The Farm, che porta avanti il suo messaggio animalista portando al macello ed allevamento intensificato non gli animali bensì gli esseri umani. La situazione disturbante, la brutalità e nichilismo, nonché la poca empatia nei confronti di uomini macellati e donne tenute in gabbia per essere ingravidate e munte come mucche in modo brutale, dovrebbe portare lo spettatore a riflettere che anche se non esistono allevamenti di questo tipo sugli esseri umani ma sugli animali sì e, spesso e volentieri, le condizioni sono esattamente le stesse, se non peggiori. La distopia è anche questo e, in fondo, non ci sta neanche raccontando nulla di nuovo.

L’evoluzione della distopia nel racconto

Un potenziale mondo distopico post apocalittico

La distopia, come abbiamo detto, è un mondo immaginario in cui la società è caratterizzata da sofferenza, oppressione e/o controllo totalitario, ma soprattutto senza dare alcuna speranza per il futuro. Non a caso, uno dei testi sacri per antonomasia del genere distopico è 1984 di Orwell. Orwell trasforma l’illusione del progresso nel male assoluto, tracciando una linea guida che verrà successivamente seguita tanto in letteratura quanto nella rappresentazione per piccolo e grande schermo.

Durante il Novecento, la narrativa distopica ha avuto un periodo di grande sviluppo, grazie alla mescolanza di diverse tematiche appartenenti ai generi della fantascienza e dell’utopia. Tra i principali romanzi del periodo troviamo I cinquecento milioni della Bégum (1879) di Jules Verne, in cui vengono costruite due città ideali: l’utopia sanitaria di France-Ville e la città-industria Stahlstadt, organizzata militarmente e produttrice di armi all’avanguardia; e l risveglio del dormiente di H.G. Wells, che racconta il risveglio, dopo duecento anni, di un uomo all’interno di una Londra completamente trasformata. 

La base è sempre quella di prendere un tema ed esasperarlo, senza lasciare un briciolo di salvezza. Pensiamo ad opere più moderne come Arancia Meccanica (tanto libro quanto film) o Battle Royal oppure, ben più contemporaneo, Hunger Games. L’esasperazione della violenza e la sua spettacolarizzazione che non solo ci mette di fronte l’apatia totale dell’essere umano che, perdendo di umanità, risulta indifferente nei confronti delle vite altrui; ma anche al forte divario di classe sociale dove vede il più ricco, il più potente, utilizza il più povero, il più debole, come mero svago del proprio intrattenimento solo perché “può”. Risultato di un divario sociale sempre più profondo ed irraggiungibile; e qui gli esempi possono davvero sprecarsi, da The Purge a Squid Game. Ed ecco subito che abbiamo il fin dove possiamo davvero spingerci, il cosa l’umanità sia capace di fare a se stessa.

La distopia nelle serie TV

The Twilight Zone

La distopia nelle serie TV è, ed è stata a lungo, un genere popolare in televisione. Nel corso degli anni, abbiamo assistito ad una vera e propria evoluzione delle serie TV distopiche, passando dai temi classici di una società futuristica e post-apocalittica fino ad arrivare alle esplorazioni più sfumate delle attuali questioni sociali e politiche.

Uno dei primi esempi serie TV distopica è The Twilight Zone, arrivato per la prima volta nel 1959. All’interno della serie potevamo trovare episodi stand-alone che esploravano vari temi legati alla distopia, come il totalitarismo, il conformismo e i pericoli della tecnologia. In questo senso, possiamo dire che The Twilight Zone ha stabilito lo standard per la narrazione distopica in TV, facendo da apripista per le serie TV che sarebbero arrivate nei decenni successivi.

Negli anni ’80 e ’90, le serie TV distopiche iniziarono a incorporare più elementi legati alla fantascienza, come per esempio invasioni aliene e viaggi nel tempo. Uno degli esempi più iconici di quest’epoca è sicuramente The X-Files, che combinava temi distopici con una trama di cospirazione governativa, anni d’oro legati alle teorie sulla famigerata Area 51. Il successo dello show ha contribuito a rendere popolare l’idea di fondere fantascienza e narrazione distopica.

Ed infatti, all’inizio degli anni 2000, precisamente 2004 questo dà vita ad una delle serie TV più amate e di successo, Battlestar Galactica, aprendo anche le danze verso l’esplorazione di questioni sociali e politiche più complesse. Questa serie ha esplorato temi come il terrorismo, i diritti umani e la moralità della guerra. Basando i suoi elementi distopici su problemi del mondo reale, Battlestar Galactica ha creato un mondo più realistico e avvincente per gli spettatori. Ma soprattutto ha dato il “la” per rappresentazioni ancora più realistiche legate al nostro futuro; non a caso nel 2011 arriva forse la serie TV distopica, in ambito tecnologico, per eccellenza: Black Mirror.

Black Mirror

La serie TV di Charlie Brooker, che purtroppo con il tempo ha perso mordente anche a causa della collaborazione americana, nelle prime stagioni non solo ha rappresentato uno dei punti più alti della serialità britannica, ma anche una delle rappresentazioni più efficaci ed inquietanti dei nostri tempi, portando avanti una lunga riflessione sul nostro uso, abuso e dipendenza della tecnologia, nonché il suo impatto sulla società stessa, offrendo così una prospettiva unica sulle potenziali conseguenze della tecnologia nel prossimo futuro.

Attraverso i suoi scenari distopici e speculativi, Black Mirror spinge lo spettatore a mettere in discussione il suo rapporto con la tecnologia e a considerare le implicazioni etiche del suo rapido progresso. Tra i temi esplorati dallo show, troviamo alcuni degli argomenti di discussione più caldi come la privacy, l’identità, le dinamiche di potere e l’influenza dei media sull’opinione pubblica. Charlie Brooker ha utilizzato un linguaggio sempre molto avvincente, delle volte assurdo ed imprevedibile, spesso mettendo lo spettatore stesso in condizione di disagio. Sfida a pensare in modo critico al ruolo che la tecnologia gioca nelle nostre vite e ci incoraggia a considerare le potenziali ramificazioni dei nostri progressi tecnologici. Sembra quasi che aleggi sempre la sensazione del “potrebbe accadere a me, potrebbe accadere a noi”, stimolando un dibattito interno e, a volte, perfino una presa di coscienza.

Certo, se la narrazione smuovesse veramente così tanto gli animi anche nella pratica, a quest’ora il futuro che ci si prospetta di fronte non sarebbe così oscuro e catastrofico. Lo so, sembrerebbe una frase un po’ esagerata, ma parliamoci chiaro: stiamo bruciando ed anche piuttosto velocemente. E parlando di distopia sul tema, basterebbe pensare ad un Snowpiercer o un più recente Silo, di prossima uscita su AppleTV+. Ok, forse non viaggeremo all’infinito su di un treno che contiene intere popolazioni divise per classi sociali e non vivremo neanche in dei sotterranei perché l’aria sulla superficie è diventata tossica, ma soffermiamoci un attimo sulle dinamiche sociali e politiche alla base di questi prodotti e ditemi se, in fondo, qualcosa in comune con il nostro mondo non lo vedete anche voi. In fondo, noi una distopia vera e propria l’abbia vissuta: la pandemia. E cosa è successo in quei primi giorni? E nei mesi successivi? Penso che il ricordo sia abbastanza caldo nella testa di tutti, soprattutto per ricordarci che no, migliori non ne siamo usciti.

The Handmaid’s Tale e un futuro drammaticamente possibile

Una scena di The Handmaid's Tale

Negli ultimi anni, le serie TV distopiche sono diventate ancora più sofisticate, più feroci e dolorose, con focus su tematiche sociali che ci riguardano nel profondo. E a volte, queste serie tv, fanno davvero paura. Perché? Perché il pozzo da cui attingono è drammaticamente reale.

Sì, la narrazione è pur sempre un’elaborazione fantastica, dove vengono esasperati i concetti alla base della storia, l’ispirazione principale di questi prodotti deriva dal mondo reale, problemi sociali e progressi tecnologici, conflitti politici e diversità di classe, disuguaglianza, ingiustizia. Questa tipologia di serie riflette spesso le ansie e le preoccupazioni della società circa le potenziali conseguenze delle nostre azioni e decisioni, soprattutto quando parliamo di progresso sociale. E qual è, in fondo, la serie tv distopica che negli ultimi anni ha così tanto fatto parlare di sé proprio per la sua vicinanza al mondo reale se non The Handmaid’s Tale!? Sicuramente non perché andiamo in giro vestiti e vestite come se fossimo a Gilead, ma perché è una rappresentazione – dal punto di vista simbolico – tanto attuale quanto profetica. E se avete visto anche solo un episodio, capirete il perché di tutta questo terrore suscitato da una “semplice serie tv”.

Partiamo dal presupposto che tanta della sua potenza la serie la prende dall’omonimo romanzo di Margaret Atwood, grande autrice dallo sguardo attento, tagliente e inquietante. Il racconto si sviluppa attorno temi a noi più vicini che mai come il sessismo, il patriarcato, i diritti riproduttivi e l’estremismo religioso. La serie è un continuo campanello d’allarme nei confronti delle conseguenze dell’autoritarismo, campanello risuonato in tutto il mondo. Non a caso è arrivata nel 2017 in concomitanza con la presidenza di Donald Trump. Andando però ancora più indietro, alle origini dello stesso romanzo nel 1985, la Atwood fu fortemente ispirata da due eventi storici di quel periodo: da un lato, l’ascesa degli ayatollah in Iran, con tutta la loro violenta misoginia; d’altra parte, l’ascesa della destra evangelica negli Stati Uniti, un movimento che ora è per lo più associato alla lotta contro l’aborto e il matrimonio gay, ma che nelle sue origini combinava questi elementi con il desiderio di segregazione dei neri: razzismo e difesa della famiglia tradizionale.

Margaret Atwood autrice de "Il racconto dell'ancella"

Ed ancora oggi, infatti, è facile fare dei paragoni con il presente. Gilead riduce le donne a mogli-bambine o a schiave, come fa l’ISIS. Gilead segrega i neri, proprio come ha fatto il Sudafrica o come alcuni gruppi di estrema destra vorrebbero fare di nuovo. Gilead ufficialmente “deporta” gli ebrei, ma in realtà vengono sterminati come nella Germania nazista. E proprio come l’ex-Germania dell’Est, Gilead è sostenuta da uno stato di polizia in cui i vicini si spiano a vicenda e nessuno può fidarsi degli altri.

Quando poi si parla di persone omosessuali, possiamo paragonare il loro destino a quello di uomini e donne dell’Iran o della Cecenia. Ma ci basterebbe dare uno sguardo anche al nostro Bel Paese, per ritrovare più di un pezzo di Gilead da noi: l’aspro dibattito sul diritto delle donne all’aborto, la proposta di smettere di registrare figli di genitori dello stesso sesso, il non riconoscere il matrimonio tra persone dello stesso sesso, lo sfrenato razzismo ed omofobia esercitati dalle stesse sfere alte del nostro governo, parlare di “parole proibite”. Vado avanti?

E come tutto questo, inevitabilmente, influenza la popolazione che si scanna spegnendo il cervello sui social, creando faide pronte a sbranarsi, chiudendosi completamente a qualsiasi possibilità di dialogo.

La realtà supera sempre la distopia

Una scena di The Handmaid's Tale

Alla luce di tutto questo, possiamo dire che l’evoluzione delle serie TV distopiche è stata contrassegnata da una progressione verso una narrazione più complessa e sfumata, dettata sicuramente dall’evoluzione (o forse sarebbe più opportuno dire involuzione) dell’essere umano. Dai temi classici delle società post-apocalittiche all’esplorazione delle attuali questioni sociali e politiche, questa tipologia di show ha continuato ad affascinare il pubblico con le loro riflessioni, input e spunti sulla condizione umana, presentando scenari estremi e inquietanti. Al tempo stesso, sembrano quasi fungere da ammonimento e promemoria sull’importanza dell’essere consapevoli delle potenziali conseguenze delle nostre azioni. Ci incoraggiano a riflettere sullo stato attuale della nostra società e ci ispirano a lavorare per creare un futuro migliore. O almeno, questo è quello che ci si augura, per quanto la situazione attuale indichi esattamente il contrario.

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Certo, potremmo anche dire che la paura della distopia che possa diventare realtà sia qualcosa di estremamente soggettivo, del resto è pur sempre vero che presentano una versione esagerata ed esasperata della realtà; tuttavia, gli eventi e i problemi del mondo reale spesso e volentieri possono anche essere incredibilmente spaventosi e inquietanti: dai disastri naturali alle pandemie, passando per i disordini sociali all’instabilità politica. Veniamo costantemente bombardati da notizie, a volte volutamente allarmistiche, altre romanzate, altre ancora superficiali. Le narrazioni non sempre corrispondo a realtà, le persone si autoconvincono che alcuni problemi non esistono o che sono meno importanti, ed i politici ci danno in pasto contentini o specchietti per allodole per non lavorare lì dove dovrebbero.

Forse sì, tutto questo potrebbe ridursi ad una questione di prospettive, eppure le occasioni da parte della realtà di dimostrarsi ben più terrificante di qualsiasi distopia, non sono mancate. Sta solo a noi cogliere i segnali o decidere, deliberatamente, di ignorarli.

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Gabriella Giliberti

Gabriella Giliberti, nata a Martina Franca nel maggio del 1991, è una critica cinematografica televisiva, scrittrice e content creator. Dopo essere cresciuta a cinema horror, vampiri e operetta, si è formata a Roma, specializzandosi in storia del cinema, sceneggiatura e critica. Dal 2015 al 2022, è stata penna e volto del sito Lega Nerd, ricoprendo il ruolo di capo redattrice nella sezione Entertainment dal 2019 al 2022. Collabora regolarmente sia su riviste online che cartacee, ed è presente come inviata, moderatrice e speaker presso i principali Festival e Fiere. Attraverso il suo profilo @GabrielleCroix su Twitch, TikTok ed Instagram condivide e divulga l’amore per la pop culture con la sua community e pubblico di appassionati. Ha partecipato all’antologia “Emozioni da giocare” (Poliani, 2021) e “Moondance – Tim Burton, un alieno ad Hollywood” (Bakemono Lab, 2023). Da sempre appassionata di mostri, attualmente è a lavoro su diversi progetti che riguardano la rappresentazione del mostruoso nella società. “Love Song for a Vampire – Etologia del Vampiro da F.W. Murnau a Taika Waititi” (Bakemono Lab, 2023) è il suo primo libro, e non ha intenzione di smettere.

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